Single post


La regolazione degli affetti e la riparazione del sé in carcere

Il racconto di un’esperienza psicoterapeutica di
“sintonizzazione emotiva”

Allan Shore, nel testo “La regolazione degli affetti e la riparazione del sé” (2008, Astrolabio, Roma), unisce ed incrocia le classiche teorie dello sviluppo emotivo (a partire dai vari tipi di attaccamento presentati da Bowlby) con la ricerca neuroscientifica.
In quest’ottica, l’organizzazione e la ristrutturazione del Se’, avverrebbero grazie alla capacità dell’individuo di regolare le proprie emozioni, in funzione anche dell’esperienza assimilata di sintonizzazione emotiva con l’altro.
L’autore sottolinea come la possibilità del neonato di sintonizzarsi con la mente della madre o di chi si prende cura di lui, sia indispensabile per promuovere la maturazione dei circuiti cerebrali che mediano la capacità di autoregolazione.
La relazione con l’altro induce uno sviluppo neurologico, in particolare nelle primissime fasi della vita, ma la plasticità dell’emisfero destro del cervello, che regola le componenti preverbali o non verbali della comunicazione, per fortuna, non si estingue mai.

E’ intuibile, quindi, come il processo psicoterapeutico diventi occasione di recuperare, o costruire per la prima volta, uno scambio interpersonale, emotivamente caldo e significativo, in grado di agevolare il senso di sé, definendo meglio le risorse e le peculiarità dell’individuo, avviando una comunicazione interiore più fluida tra “corpo, mente, emozioni”, in un crescendo di consapevolezza personale.
Comunicare, in terapia, diventa così un modo per riconoscersi, differenziarsi, essere accolti e, a nostra volta “accoglierci”, focalizzando anche limiti e risorse personali.
E nel comunicare, ogni parte di noi diviene prezioso contributo al riconoscimento e alla sintonizzazione emotiva: ecco che non è solo la voce a parlare ma il volto, con la sua espressività, le mani con il loro gesticolare, il corpo con i movimenti di apertura o ritiro, sono lì ad aiutarci a rendere più fluida la narrazione, a rompere il silenzio e, talvolta, invece, ad abitarlo e farlo risuonare.

Tale esperienza può avere svariate cornici…alcune volte agevolanti il processo regolativo, altre volte, invece, persino ostacolanti.
Intendo, con ciò, richiamare l’aspetto visivo e percettivo in genere della psicoterapia: ci si può sedere l’uno di fronte all’altro in uno studio privato, magari reso accogliente, profumato e adeguatamente illuminato, si può, invece, usare come sfondo un ambiente naturale, con i suoi elementi e suoni di sottofondo….si può, ancora, provare a comunicare in stanze piccole, dall’arredo freddo e casuale, dalle pareti anonime e dalle scrivanie grandissime, talvolta distanzianti, intorno alle quali i ruoli si irrigidiscono e le maschere si strutturano.
Penso ai “setting istituzionali” nei quali spesso si svolge il lavoro terapeutico, come i reparti degli ospedali, i consultori, le carceri. Ambienti nei quali “la cornice” entro cui si svolge la sintonizzazione non è agevolante ed è, dunque, quanto mai importante l’espressività dei protagonisti del quadro, il desiderio di allontanare lo sfondo (con i suoi rumori assordanti, gli odori che stridono con il ritmo biologico dello scorrere del tempo, il troppo caldo o l’eccessivo freddo, il bisogno di privacy che deve necessariamente venire a patti con la tutela dell’altro).

Rifletto, in modo particolare, sulla mia esperienza come psicoterapeuta presso la Casa di Reclusione di San Gimignano e di tutto il tempo che ogni volta occorre, sia a me che alla persona che mi si siede davanti, per togliere tutto ciò che renderebbe la sintonizzazione con l’altro e con se stesso davvero difficile o artefatta.
Mi vengono in mente, a questo proposito, gli sguardi disorientati dei detenuti le prime volte che, sedendosi, non entravano nel tunnel delle risposte a tempo, del “raccontami chi sei nel più breve tempo possibile”, del “convicimi del perché dovrei provare a fare qualcosa per te”, ma trovavano un invito a stare insieme, ad avviare il racconto solo dopo aver provato a costruirsi un terreno sufficientemente familiare su cui poter poggiare i piedi senza il terrore di cadere.
Certo, all’inizio il mio dire: -“Ha le mani fredde, non sta bene?”-, oppure: -“ Quella ferita non l’avevo vista, si è fatto male in questi giorni?”, o anche: “- Ha gli occhi stanchi, riesce a riposare?”, o semplicemente: – “Che faceva prima che la chiamassi, ha potuto finire di mangiare, leggere, scrivere a sua moglie, guardare il tg…?”, suonavano come un semplice intercalare, come quando, incontrandosi per strada, il saluto è accompagnato da una domanda distratta su come stia l’altro, domanda a cui nessuno è pronto né a rispondere davvero, né ad ascoltare.
Con il tempo, però, quelle domande iniziali hanno ricevuto risposte e sono state accompagnate da sguardi distesi, vivi, desiderosi di ascoltare quell’interessamento, da sguardi bisognosi di guardare e, soprattutto essere visti.
Con lo scorrere dei colloqui, poi, è nato anche un altro importante presupposto per la regolazione emotiva: l’inclinazione alla reciprocità.
Alle mie domande, seguivano altre domande, in un crescendo di attenzione all’altro e, al tempo stesso, a sé: – “Dottoressa sono le 15 e no ha ancora pranzato, non è stanca?- , ancora: – “ I bambini come stanno, crescono bene?”- , e poi: – “Le dà fastidio se chiudo la porta? Non sento nulla”-.
Poter ascoltare e raccontare presuppone un antecedente bisogno di “mettersi in sicurezza”. La madre non fa forse così con i suoi bambini?
Nessuna madre, solitamente, pensa a portare fuori un neonato a prendere un po’ d’aria senza essersi accertata prima che i bisogni primari del piccolo siano stati soddisfatti. Così, sicuramente, prima lo farà mangiare, lo laverà e lo cambierà, se necessario, e poi lo farà uscire, sicura che, accolte quelle primarie necessità, potrà forse apprezzare il tepore del sole sulla pelle, il gioco di luci e ombre delle foglie sugli alberi e, cullato dall’aria fresca, magari si addormenterà.
La terapia è, per me, un processo di cura che presuppone, in qualsiasi contesto, la necessità di partire dal guardare l’altro, riconoscerne i suoi bisogni di base e le sue peculiarità, mettendo la persona in condizione di “ascoltarsi”, sintonizzando i pensieri con i vissuti percettivi ed emotivi.
E così, possono essere molti i colloqui dedicati al respirare, prendendo lo spazio necessario, poggiare i piedi a terra in cerca di radici sicure, a dare al corpo modo e margine per esistere…presupposto fondamentare per l’avvio di un racconto permeato di senso, capace di fare luce sulle inclinazioni di ciascuno, inclinazioni che, se riconosciute, riaccendono la speranza, donano energia vitale, leniscono il senso di isolamento e solitudine.

Dott.ssa Giulia Lotti
Psicologa- Psicoterapeuta

Questo sito utilizza cookies per darti la migliore esperienza di navigazione. Accetta cliccando il pulsante relativo