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Come ogni altro lavoro, anche quello dello psicoterapeuta prevede aggiornamenti e formazione costante. 

Per questo, e per molti altri motivi, i terapeuti partecipano a momenti di scambio o, come si dice in gergo, “supervisione”, con colleghi più esperti, di terapia e di vita.

Il mio supervisore abita a Firenze e ha una terrazza assolata che ospita infinite specie di piante, di varie famiglie ma il numero di quelle grasse è, a colpo d’occhio, preponderante.

Non colpisce la bellezza dei vasi che le ospitano o la particolarità dei colori dei fiori ma la loro vicinanza. 

Separate l’una dall’altra ma al tempo stesso vicinissime, godono dello stesso sole, della stessa pioggia, della medesima ombra e di eque cure di manutenzione, ognuna secondo le specifiche necessità, ovviamente.

Eppure, ciascuna ha un punto di verde diverso, foglie più o meno idratate, fiori in attesa della loro fioritura, fiori discreti, fiori orgogliosi che guardano verso il cielo, semplicemente nessun fiore in altri casi.

La maggior parte ha subito fortuiti e fortunati ripescaggi, trovate adagiate vicino a cassonetti: nessuno aveva avuto fiducia in una loro possibile nuova fioritura e aveva pensato che quello potesse essere il posto giusto,  in fondo  non profumavano più ed erano ripiegate su se stesse, dimenticando di splendere fiere verso il cielo.

A guardare quelle piante dalla porta finestra dello studio, o a stare in mezzo a loro quando il tempo offre il privilegio di fare supervisione sul terrazzo, sembra di vedere tanti piccoli esseri grati alla vita, al sole, all’acqua, alla compagnia dei loro simili, a quelle mani che, instancabilmente, non si stufano di far fare ai vasi giri di danza, in cerca del punto più luminoso, o più in ombra, o più facilmente raggiungibile dalla pioggia, al variare del bisogno e delle stagioni.

Ma quando lascio quel terrazzo, il mio supervisore pensa che una di loro possa lasciare con me quello spazio e provare a fiorire altrove. 

E’ un cactus, potrebbe pungere, ma anche fiorire, se ne ha voglia, facendo spuntare, tra le spine, fiori che nascono di notte e non durano moltissimo ma, se ti svegli presto, dice lui, puoi ancora coglierne la bellezza.

Mi dà solo tre avvertimenti il mio supervisore, prima di affidarmi la pianta: avvisa i tuoi bimbi che punge davvero, cercale un posto ben al sole, bagnala poco.

Ad essa, nel congedo dopo l’ora di supervisione, se ne sono, con il tempo,  aggiunte altre tre, che ho portato prima in macchina con cura e poi collocato in giardino, in modo da vederle e da farle raggiungere dalla giusta dose di luce ed ombra.

Sapeva che non ero esperta di piante, sorrideva infatti quando al telefono cercavo di descriverne le evoluzioni, le possibili future fioriture con un gergo non propriamente tecnico, tanto da rendermi a volte quasi incomprensibile.

Mi sono chiesta perché lo facesse, se avesse in fondo paura che quegli esseri, a cui aveva dato altro respiro, potessero cessare di esistere con me, a causa della mia distrazione e inesperienza.

Un giorno, mentre le ho messe tutte vicine sul prato del mio giardino, diverse che più di così non si può, ma così sorelle come sul terrazzo di Firenze, dove avevano iniziato a ossigenarsi nuovamente, ho capito che la fiducia non è successo sicuro, non è certezza, non è mai una scommessa facile, né con se stessi, né con gli altri.

E quelle piante, così come la fiducia in generale, non mi sono state date per le mie competenze, per la sicurezza che non avrei mai sbagliato con loro, ma per la sensazione che avessi percepito ogni fatica e ogni gioia di quelle radici che tornavano a tenersi in piedi, insieme all’affetto della persona che, con il sole, l’acqua e  tutti gli elementi, aveva compartecipato a questo piccolo miracolo.

Per cui mi piace pensare che possiamo darci fiducia, e darne ai nostri figli o a chi amiamo, non tanto per la certezza che sia senza dubbio ben riposta, che lo sbaglio sia un’ipotesi remota, ma per la consapevolezza di avere tutti, anche chi sembra ormai da rottamare come le piantine del cassonetto, radici fatte di limiti e risorse, pori chiusi e pori aperti al mondo, mani capaci di dare cure e di riceverne.

Da qualche tempo lascio che mia figlia, di quattro anni, porti a passeggiare Sam, una tartarughina che è al suo secondo risveglio, dopo il letargo.

Ha il guscio ancora troppo morbido per abitare in giardino senza rischi ma ha tutta la curiosità e la voglia di esplorare delle giovani vite.

Insieme girano per il giardino, mangiano melone, incontrano le tartarughe grandi e le bambole di pezza abbandonate qua e là e ridono, soprattutto ridono, e il fragore della risata di un figlio è la certezza che, difficilmente, quella fiducia, potrà essere mal riposta.

Giulia Lotti

Psicologa, Psicoterapeuta

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