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 Ogni tanto guardo i miei orecchini. Quelli che mi furono regalati da una collega, alla fine di una lunga esperienza di lavoro insieme e che tante volte ho tirato fuori dal loro sacchetto blu, decidendo poi di metterli in un’altra occasione.

Non perché non mi siano piaciuti, tutt’altro. E trovai da subito coraggioso quel regalo, perché non siamo più piccolissime, eppure quel pensiero, quell’idea di dividere due coppie di orecchini e regalarle spaiate, mi sembrò più forte dei ruoli, dell’età che ci voleva “serie”, dell’ambiente non certo facile in cui ci eravamo incontrate e, a volte, dolcemente scontrate.

Tirò fuori quegli orecchini e mi spiazzò, in uno degli ultimi giorni che saremmo rimaste a lavoro. Mi colpì la timidezza e il pudore con cui me li consegnò (timidezza e pudore che di solito erano miei), accompagnati da un bigliettino che suonava più o meno così: ” -ho diviso quegli orecchini perché erano una coppia di soli ed una di lune. Li ho divisi in modo che potessimo avere ciascuna un sole e una luna, perché è così che mi sono immaginata noi in questi anni, profondamente diverse ma anche molto complementari”-.

Ed era vero, nessuna aveva spento il sole dell’una e nessuna si era sognata di dire che sentiva freddo nelle ombre dei paesaggi lunari dell’altra. O almeno così ho percepito io.

Non ci capivamo sempre, c’erano vicinanze e lontananze, ma sentivamo che l’una era capace di vedere e sentire cose che l’altra né vedeva, né sentiva…ed eravamo curiose di respirare questa diversità.

Quegli orecchini si facevano compagnia.

Ed è su questo che sto riflettendo da un pò..su queste tre parole che mi rincorrono all’interno delle trame dei racconti dei miei pazienti e nello scorrere delle mie cose: parti, solitudine, compagnia.

Parti. Siamo fatti di molte parti e il mio lavoro è dedicato proprio a dar visibilità a quelle parti, dignità di esistere, sentendo dove si sono perse per strada, a chi non piacevano o in nome di cosa le abbiamo riposte in soffitta. Vedere insieme le “parti”, mentre, chi si siede nella mia stanza verde acqua, è proteso a portare solo un pezzo, quello più scomodo, quello che adesso fa male, non fa dormire, non fa uscire, non fa respirare e un sacco di altri “non” che sanno di limite, divieto, spalle al muro e percorsi in salita al cui termine c’è scritto un beffardo “nulla di fatto, riparti e ritenta”.

Lo so che può sembrare dissonante, stridente rispetto al problema portato dalla persona, ma è proprio quando si possono iniziare ad esplorare altre parti, senza nulla togliere a quella più consistente in cui ci identifichiamo, che non sentiamo più così paralizzante la solitudine.

E così, la rabbia lascia posto anche al desiderio di tranquillità, l’espressione del volto tesa e seria alla voglia di sorriso e leggerezza, il fiato corto dell’ansia al bisogno di fermarsi, ora, e sentire che non tutto è risultato, compito, prestazione o misura di valore, ma anche e semplicemente vita, con le sue onde basse e alte su cui cerchiamo di tenerci in equilibrio, ricordando, però, che il nostro “essere nel mondo”, non dipende necessariamente dal cronometro che ci ha indicato per quanto tempo hai resistito senza cadere.

E ancora, chi è abituato a “ridere sempre e arrendersi mai”, può finalmente aprire la porta a parti di tristezza, di fatica, di dolore. E sentire che non è meno valoroso se ogni tanto è triste, che non perde punti, o meglio, non più perché il genitore che accoglie queste parti, semplicemente rispondendo “eccovi, vi vedo”, adesso può essere lui.

E chi è triste, sentire il sollievo di un respiro leggero, dicendosi che non perde la bussola se, in mezzo alla confusione che sente, prova ad allentare la morsa con un sorriso, che non è superficialità ma affidarsi a quell’onda che, a volte, ci trasporta senza che ci sentiamo in obbligo di tenere tutto seriamente sotto controllo.

E quel bussare alla porta di parti nuove, che poi sono parti antiche, odora di festa, di compagnia. 

Non ci sente più soli se possiamo, anche accompagnati, anche solo per pochi istanti, sentire che ogni pezzetto ha dignità di esistere, senza che nulla cambi nell’immagine di noi.

Ecco perchè, se pur professionalmente a volte necessarie, odio le etichette diagnostiche.

Perché se io sono “l’ansioso” cercherò fuori “il calmo”, se sono “il timido”, vorrò accanto a me “un estroverso”,  o ancora, se sono “il depresso”, cercherò disperatamente uno “con il sorriso stampato in faccia”..e via di seguito, parti dopo parti, frammenti dopo frammenti.

Far spazio alla calma in mezzo all’ansia, al sorriso dentro la tristezza, al movimento dentro la rigidità, è qualcosa di molto più profondo, che nasce da dentro e che dà ossigeno, possibilità di esistere, e far esistere, più parti di noi. Ricordandoci anche che abbiamo tutto dentro: gioia e tristezza, noia e divertimento, coraggio e paura, rigidità e morbidezza, rabbia e serenità, pudore e sfrontatezza.

Oggi ho finalmente messo quegli orecchini e ho capito forse il perché non lo avevo fatto prima. Non volevo prendere il sole in prestito, volevo sentirlo dentro…insieme all’immagine della luna che, anche quando c’è ancora luce, inizia ad intravedersi nel cielo e, se tu non ti ostini a pensare che è ancora giorno, puoi scorgere la magia della notte.

Giulia Lotti

Psicoterapeuta

 

 

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